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Fast fashion, in italiano moda veloce.
Il settore nasce negli anni ’80, ma esplode nel 2000, quando, alcune aziende
dell’industria dell’abbigliamento, iniziano a produrre un numero sempre
maggiore di collezioni l’anno, a costi stracciati.
Si potrebbe pensare: “che bello vestiti nuovi, quando voglio, a prezzi
convenienti!”,spesso però il fenomeno nasconde pratiche di sfruttamento del
lavoro nonché impatto nocivo sull’ambiente, causando inquinamento idrico,
emissioni di sostanze chimiche tossiche e milioni di tonnellate di rifiuti da
smaltire.
Il 24 aprile in Bangladesh crollò il Rana Plana, un edificio commerciale di otto
piani. Fu la più grave tragedia nella storia dell’industria tessile, nel palazzo
erano presenti diverse fabbriche di abbigliamento che producevano per
marchi internazionali. I laboratori dovevano essere chiusi perché l’edificio era
stato dichiarato non sicuro, ma l’avviso fu ignorato e i proprietari ordinarono
agli operai di proseguire l’attività, così facendo causarono 1134 vittime e 2515
feriti.
Da allora ha preso avvio la campagna WhoMadeMyClothes? Chi ha fatto i
miei vestiti? Ogni anno in tutto il mondo viene ricordata quella tragedia
durante la Fashion revolution week, con iniziative ed eventi a sostegno di
un’industria della moda sostenibile: sicura, giusta, trasparente e  responsabile.
La produzione di massa a prezzi irrisori comporta, dunque, bassa qualità nel
prodotto e genera enormi quantità di rifiuti e inquinamento. Ogni anno
vengono gettati via 5 milioni di tonnellate di vestiti, l’80% finisce in inceneritori e discariche spesso dislocati nel Sud del mondo. Eclatante è l’esempio della discarica illegale nel deserto di Atacama, in Cile, dove finisce la fast fashion di mezzo mondo, con molteplici rischi per l’ecosistema e per la popolazione locale.

Poiché non c’è attenzione ai tessuti scelti e alle tecniche di produzione,
scaricando sostanze tossiche utilizzate per la colorazione e lo sbiancamento
dei tessuti, vengono inquinati i fiumi e i terreni vicini alle fabbriche
Inoltre il 60% delle fibre tessili utilizzate sono sintetiche e già dopo i primi
lavaggi rilasciano microplastiche che finiscono in mare e poi, risalendo la
catena alimentare, anche all’interno del nostro cibo e nel nostro corpo.
Occorrerebbe regolamentare la fast fashion con un sistema di responsabilità
del produttore, imporre alle aziende di fornire informazioni trasparenti sulla
catena di produzione, ma, anche noi, potremmo dare il nostro contributo per
contrastare il fenomeno.
Considerato che queste aziende hanno a cuore il solo profitto e non hanno
scrupoli a inquinare il pianeta, il consumatore dovrebbe chiedersi: sono
questi i miei valori, voglio continuare ad acquistare questi prodotti perché mi
diverte, perché risparmio e sono alla moda o voglio fare la mia parte?
Ecco alcune pratiche necessarie da mettere in atto:
– ridurre l’acquisto impulsivo e fare shopping consapevole
– investire in capi durevoli
– riutilizzare i vestiti scambiandoli con parenti ed amici
– riparare gli abiti
– creare un guardaroba intercambiabile cercando di abbinare i capi ad
altri già presenti nell’armadio
– acquistare da aziende locali che appartengono alla moda ecofriendly
– evitare tessuti sintetici, preferire fibre naturali ultimamente ci sono il
Pinatex a base di foglie di ananas e il Lyocell con fibre di legno.
– leggere le certificazioni sulle etichette degli abiti: Global Organic Textile
Standard (GOTS) è lo standard per le fibre organiche, Fair Trade o Fair
Wear: abiti creati in condizioni in cui gli operai sono pagati equamente.

Diventando consumatori più consapevoli, possiamo costringere i
produttori a diventare più etici, allora il nostro slogan dovrà essere:
COMPRIAMO MENO E COMPRIAMO MEGLIO.

Miriam D’Ambrosio